Ogni decisione terapeutica ha rilevanza etica. Si può argomentare che ogni decisione di azione che comporta una scelta tra alternative possibili ha, in ogni caso, rilevanza etica. Possiamo distinguere due fondamentali componenti che concorrono a formare ogni decisione di azione: una componente conoscitiva e una componente valutativa.
La componente conoscitiva ci prospetta le probabili conseguenze di nostre azioni (se lancio un sasso esso compierà una traiettoria conforme alle leggi del moto esperite) e trae origine dal nostro esperire regolarità nel mondo che ci circonda (es: noi esperiamo la forza di gravità e ne formuliamo un modello di cui ci serviamo per prefigurare condizioni ipotetiche o future e per individuare vincoli fisici, basandoci sulla osservazione delle regolarità con cui i corpi si attraggono).
La componente valutativa ci indirizza a compiere quelle azioni che tendono a realizzare ciò che desideriamo (che riteniamo buono, giusto, ecc.). Tradizionalmente, il compito di indagare gli aspetti valutativi è attribuito all'etica.
Di solito, non ci accorgiamo della rilevanza etica delle nostre decisioni di azione se i presupposti di valore dei soggetti in questione (paziente e terapeuta, automobilista e ingegnere, ecc.) collimano. In quei casi non ci accorgiamo quasi che ci sia una scelta alla base di un comportamento. Così, ad esempio, non ci accorgiamo quasi della componente etica insita nelle decisioni necessarie alla costruzione di un ponte. Infatti si dà normalmente per scontato che un ponte non crolli al passaggio di una automobile (cioè si assume che tutti quelli che passano sul ponte DESIDERANO che il ponte non crolli) e si usano le informazioni che si possono trarre dalla scienza delle costruzioni per evitare che crolli. Già da questo banale esempio si può notare che nulla si può desumere dalla componente conoscitiva (nel caso specifico, dalla scienza delle costruzioni) riguardo a ciò che è buono (cioè riguardo al VOLERE che il ponte non crolli piuttosto che sì). La riprova è che la stessa scienza delle costruzioni, che ci permette di costruire un ponte che normalmente non crolla, ci permette anche di costruire arnesi per farlo crollare, se lo si vuole fare. L'ingegneria militare evidenzia bene la separazione delle due componenti che concorrono a formare una decisione di azione.
Anche quando la concordanza dei desideri è meno ovvia che nel caso del ponte, sembra che non si ponga ancora un problema etico quando i desideri dei soggetti coinvolti nell'azione non confliggono. Quando i desideri di un paziente collimano con quanto la legislazione, la deontologia professionale e le convinzioni in materia di valore di chi decide la terapia prevedono, non si manifesta un problema etico. Ad esempio se un paziente terminale sofferente, per la cui patologia non si conoscono terapie risolventi, accetta che gli venga praticata una adeguata ed efficace terapia antidolorifica ammessa dalla legislazione e dalla deontologia professionale medica, e conforme a ciò che il medico ritiene buono, questo non evidenzia questioni etiche.
Se invece quel paziente chiede che gli venga somministrato un farmaco letale, questo solleva una questione etica riconosciuta, rispetto al comune senso del lecito delineato dalla deontologia professionale medica e dalla legislazione vigente qui ed ora.
Analogamente solleva una questione etica la situazione in cui invece esiste una terapia efficace, ma il paziente non la vuole praticare, mentre chi decide la terapia è invece incline a privilegiare la salvaguardia della sopravvivenza a scapito della volontà espressa dal paziente.
Chi ha titolo per decidere? Legislazioni diverse consentono cose diverse, e la scienza medica non dice nulla in merito, pur fornendo conoscenze per praticare efficacemente tutte le azioni possibili in questi casi. Infatti ci si appella a nozioni extra-tecniche come il giuramento di Ippocrate. Ma soprattutto: esiste forse, e quale forma ha una tecnica di ragionamento che consenta di fare luce in merito a questa titolarità?
Più in generale, la domanda che viene spontaneo farsi è: esiste qualche tecnica di ragionamento che ci permette di dire, sul piano valutativo, cosa è buono (o giusto) fare, in modo altrettanto svincolato dall'arbitrio dei soggetti quanto, sul piano conoscitivo, la tecnica di ragionamento, incorporata ad esempio nella scienza delle costruzioni, ci permette di dire riguardo alle conseguenze di decisioni progettuali e costruttive nella realizzazione di un ponte (o la scienza medica riguardo agli effetti di una terapia)? Ha questa tecnica di ragionamento valutativa la stessa affidabilità che siamo abituati a trovare nella tecnica di ragionamento conoscitva?
Riguardo a ciò, e schematizzando brutalmente, nella storia del pensiero si riconoscono due concezioni dell'etica, ben delineate da Nicola Abbagnano.
Con l'obiettivo di affrontare la questione se sia possibile trovare fondamento a ragionamenti etici tendenti a superare il soggettivismo in materia di decisioni di comportamento, si può notare che per tracciare confini di liceità non soggettivi (cioè per poter identificare un sottoinsieme di comportamenti leciti tra quelli fisicamente possibili indipendentemente dai desideri dei soggetti) e stilare norme di comportamento, appare necessario introdurre elementi che si rifanno ad una concezione dell'etica di tipo 1 (es: fissare tavole di valori comuni). Ma questo contrasta con l'evidenza storica ed empirica che mostra molteplicità di tali tavole e loro variazione nel tempo. Le etiche sono molte, quasi mai tra loro conciliabili, e altrettanto varie quanto varie sono le concezioni in materia di NATURA dell'uomo.
Mediante una etica di tipo 2, tendente a identificare la REGOLA alla quale un gruppo di esseri mostra di obbedire in linea di fatto, non si ottiene una riduzione del soggettivismo né dei conflitti. Inoltre quando si cerca la eventuale regola comune del "ben operarare" si fa una ricerca della NATURA degli esseri analoga a quanto viene fatto nell'ambito di un'etica di tipo 1.
A peggiorare ulteriormente la possibilità di trovare fondamento ai ragionamenti etici sta il macigno posto da Darwin. Darwin ci dice sul piano conoscitivo (il piano che produce la competenza tecnica di ciò che è fisicamente possibile, come la tecnica medica o la scienza delle costruzioni) che tutti i tratti degli esseri viventi si formano per evoluzione. Cioè abbiamo sul piano conoscitivo elementi per vedere che il bagaglio dei comportamenti NON È DATO come ideale da cui si generano le specie viventi, non proviene da una NATURA ideale delle specie. Esso SI FORMA come esperimento evolutivo casuale modulato dalla selezione naturale, al pari degli altri tratti morfologici e fisiologici degli organismi viventi, e il suo essere "buono" è esclusivamente relativo al contesto e ai soggetti. Le specie si producono per effetto di differenziatione evolutiva e non sono date a priori. Di conseguenza la loro NATURA è INDETERMINATA a priori e il loro comportamento confinato solo dai vincoli fisici.
Con ciò la possibilità di produrre norme etiche forti, possibile attraverso una concezione etica di tipo 1, rimane inficiata alla base da un atto teologico arbitrario, da una "decisione sovrana", arbitraria in quanto fondata sul nulla (ovvero su un atto di fede soggettivo), che fa valere un certo insieme di norme (un corpo giuridico o un altro, un sistema di valori o un altro), intendendo per "decisione sovrana" un atto eccezionale tendenzialmente arbitrario al di fuori della norma di cui sta a fondamento.
Di fronte a tale inconsistenza fondativa dei ragionamenti etici, quando si è in presenza di conflitti di desideri come ci si può regolare? Si può tentare la via del dialogo e della persuasione, ma quanto è davvero soddisfacente ciò? Dov'è il confine tra persuasione e imposizione in virtù di un maggior potere (ad esempio persuasivo)?
NOTA: Altre argomentazioni su alcuni aspetti di questo
schema sono a disposizione qui:
http://www.adaptive.it/home.htm
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