Permesso accordato volentieri a darmi del tu.
La sua è una obiezione molto profonda. Che va al cuore della questione. Concordo sul dilemma che illustra con le sue due vie:
1°. indipendenza dall'oggettivo (dal reale)...
2°. dipendenza dall'oggettivo (dal reale)...
A mio modo di vedere, si può dire che è già tutto contenuto nel passo del Vangelo di Giovanni che mi piace citare, qualche volta in modo ironico, qualche altra volta no, come ora:
"Le disse Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu a ciò?»" (Giovanni, 11,25-26).
E' l'essenza del miracolo. E' la ragionevolezza del miracolo. E' la (ir)ragionevole scommessa di Pascal.
Io non metto in dubbio che la via 1° sia fonte di perfetta letizia. Che sia insomma gradevole, buona, nel senso ultimo che lei illustra sintetizzando molto bene la visione cristiana. E che il brano di Giovanni istituisce fulminea. Ha solo un difetto: è incrediile.
C'è un aspetto che io trovo evidente. Spero di riuscire a spiegarlo.
Le due vie, che lei illustra, non sono indipendenti tra loro. Nel senso che non possiamo scegliere tra le due in modo indipendente ed ugualmente libero: CREDERE O NON CREDERE, PER RAGIONE. Sussiste una qualche relazione tra materia e logos, tra materia e pensiero, che va indagata. In particolare una domanda sorge: la materia dipende dal pensiero oppure il pensiero dipende dalla materia?
Si può pensare il seguente esperimento.
Senza violare regole di ragionamento (infatti, come si vedrà alla fine del ragionamento, violo solo regole fisiche, non di logos, di pensiero), io posso pensare di uccidere uno dei miei progenitori prima che si fosse riprodotto nel passato. La cosa rimane coerente con l'assunto del primato del logos sulla materia (detto altrimenti: dell'indipendenza dall'oggettivo, o via 1°). O, parafrasando una certa deriva idealistica del pensiero di Kant, che il pensiero crea il mondo. Un po' come la frase di Giovanni.
Questo genera la seguente duplice condizione: (a) o io posso MATERIALMENTE fare l'esperimento pensato, e allora io non lo posso pensare, perché non ci sarei; oppure (b) io lo posso pensare ma non fare. Cioè io posso pensare l'esperimento, e con esso tutto il resto che penso, solo perché non posso FARE materialmente proprio quell'esperimento pensabile. Ovvero, c'è qualcosa che io posso pensare, ma non fare materialmente; altrimenti, se potessi farlo, non potrei né pensarlo, né pensare di poterlo fare, nè farlo. Faccio notare che ia cosa non è limitata al pensiero: se potessi fare l'esperimento, allora non potrei farlo, perché non ci sarei e non avrei neppure potuto pensare l'esperimento. Cioè si ottiene una contraddizione del pensiero.
Ma non si può ancora generalizzare la cosa. Questo produce una dipendenza inequivocabile del MIO pensiero dalla materia; una dipendenza della mia stessa possibilità di pensare dalla materia. Una dipendenza che impedisce al mio pensiero di agire liberamente sulla materia e, in definitiva, una priorità, una prevalenza, della materia sul mio pensiero. Non è un caso che, se qualunque mio pensiero vuole tradursi in azione sulla materia, deve esplicitarsi in una azione fisica: la scarica di un neurone, ecc. Anche una azione retorica di affabulazione è soggetta a questo: deve essere emessa fisicamente ed essere recepita fisicamente e deve produrre nel cervello del ricevente reazioni chimico-fisiche per avere un qualsiasi effetto. Anche una emozione (di fronte al mare, di fronte ad una visione mistica, di fronte ad un tergicristallo, di fronte ad un atto interpretato come ingiusto, ecc.) deve scatenare nel cervello di chi la prova reazioni chimico-fisiche per avere un qualsiasi effetto.
Si può generalizzare un po' di pù dicendo che qualunque essere pensante biologico è nelle stesse mie condizioni. Qualunque entità fisica produttrice di pensiero è nelle mie stesse condizioni. Se si è prodotta sufficiente organizzazione della materia è nelle mie stesse condizioni. Questa è anche la ragione di fondo per cui il pensiero è l'effetto di un dispositivo fisico: il cervello nel corpo biologicamente funzionante. Senza questo, semplicemente non c'è pensiero, né emozione, né ogni altra cosa faccia il cervello: regolazione, ecc. Né "desiderio della pienezza", né altre descrizioni di stati d'animo, né altri stati d'animo, né la possibilità di immaginare di mettersi nei panni di un altro e derivarne un senso di compassione e di ingiustizia per la immotivata sofferenza altrui.
La materia produce la possibilità di esistenza del pensiero. Il pensiero non produce l'esistenza della materia, ma solo la eventuale possibilità di darsene una rappresentazione, più o meno affidabile, a seconda di COME si pensa. Si può immaginare col pensiero che il pensiero produca la materia, che Dio crei la materia e il mondo, ecc. Ma resta una immaginazione del pensiero, che non c'è se non c'è già la materia.
Senza materia non c'è pensiero, senza materia non c'è nulla. Nemmeno possibilità di pensare Dio. Senza pensiero continua ad esserci materia. Ovviamente per materia intendo la nozione di massa/energia formulata da Einstein, dove massa ed energia sono tra loro intercambiabili.
L'esperimento che ho proposto apre una finestra sulle molteplici allucinazioni che il pensiero può produrre e che la materia si preoccupa di mettere a posto, qualunque cosa noi possiamo pensare o dire. Come nei sogni. La robustezza della materia contro gli attacchi della metafisica della ragione è affascinante. Si può riassumere col proverbio: "Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare".
O con la disincantata osservazione di Franz Kafka: "Siamo come tronchi d'albero sulla neve. Questi giacciono lì solo apparentemente e con una piccola spinta dovrebbe essere possibile spostarli. Invece no, non si può, perché sono attaccati saldamente al terreno".
La forza della via 2° annulla la delizia della via 1°.
Per questo io non ritengo praticabile la via di un Cristianesimo razionale, ma solo quella di un Cristianesimo irrazionale, mistico, creatore del "senso" come farmaco. Come irruzione dell'arbitrio. In altre parole, come irruzione del CASO. Un cristianesimo irrazionale allora però non può affermare la verità di ciò che è bene, ma solo proporre ciò che la visione dei cristiani ritiene soggettivamente essere bene. Questo corrisponde esattamente al temutissimo, dai cristiani, relativismo etico.
Il "senso" è quello che ciascuno si dà e di cui nessuno può parlare, se non del suo, e solo parzialmente, e che un altro capirà solo CREDENDOLO SOGGETTIVAMENTE uguale al suo "senso". Come i testi, i messaggi, che ci scambiamo: nella testa di ciascuno di noi sono una cosa; vengono codificati; e poi decodificati; e infine raggiungono il "senso" dell'altro solo evocando ed interagendo con la di lui esperienza di vita, unica e soggettiva; con ciò "cambiando di senso", di più o di meno, rispetto a come erano partiti.
Questa condizione esistenziale trova riscontro nel fatto che ci sono molti "sensi" che viventi, umani e non, si danno o non si danno, anche in assenza o in presenza dell'annuncio di Cristo, o di un qualunque altro Dio, come i Buddisti. O come quelli come me.
La fisica, la scienza moderna, esplorano la coerenza del pensiero con la materia in quel mare fluido di "sensi" soggettivi, e delimitano cosa possiamo dire con coerenza. La scienza moderna è innazitutto autodisciplina del pensare, ricerca del confine del pensare il mondo, prima che qualsiasi altra cosa.
Sul piano etico, tutta questa discussione, che la mia domanda iniziale ha suscitato, si può condensare in questo: ciascuno badi a cosa VUOLE e a cosa è DISPOSTO A PAGARE per averlo, tenendo presente che un giorno morirà e che IL CASO incombe. Della verità di ciò che è bene è molto dubbio che se ne possa parlare sensatamente. Solo di ciò che si VUOLE si può tentare di parlare e ragionare. Altre considerazioni più articolate sull'etica le ho fatte nel mio ultimo post a "studentello".
Ricambio volentieri l'affettuoso saluto.