RISPOSTA A GIUSEPPE DEL TODESCO FRISONE [apR] - DELLA TRAGEDIA E DEL FARMACO

AVVERTENZA: non so se ci sono limiti di lunghezza per i post; perciò questa risposta si trova anche qui per comodità di lettura, se risultasse troncata:
http://www.adaptive.it/dbl/dbli.htm

Lei (alias papa Ratzinger [apR] in copia e incolla) centra il nodo.

Mi scuso per la farraginosità. Rispondere da solo a molti finisce in farraginosità. Gli spunti che offre questa discussione sono molti e diversi nei toni e nella profondità e nell'ampiezza degli argomenti. Faccio fatica a seguirli tutti. Figurarsi a rispondere. La fisica non è un'opinione e quando si presenta una esplosione combinatoria come questa è difficile fare argomentazioni complesse in poche righe e i tempi diventano lunghi. Oltre una certa soglia non si può più fisicamente rispondere anche se se ne avrebbe intenzione.

Il concetto di TOLLERANZA è un concetto etico. Come tale non può essere un ragionamento. Io dubito fortemente e in modo argomentato che si possano fare ragionamenti etici sensati. Penso che l'etica sia una enorme trappola concettuale ereditata dal pensiero greco, più interessato a dare fondamento alle leggi della polis che a capire come le cose funzionano (Zenone di Elea è paradigmatico di questo atteggiamento produttore di trappole concettuali). Penso che i presunti ragionamenti etici finiscano sempre in paradossi, se se ne vuole mantenere, nel mondo fisico, la coerenza e la generalità che postulano in qualità di ragionamenti. Penso che sia una questione insolubile e forse addirittura un teorema dimostrabile matematicamente. Bisognerebbe lavorarci di formalismo (non semplice), ma sono convinto che sia un teorema logico-matematico.

Dal punto di vista strettamente logico il concetto di TOLLERANZA soffre della stessa autocontraddizione del paradosso dello scettico: se tutto è relativo, questo diventa un assoluto, autocontraddicendo la premessa. Per la TOLLERANZA è lo stesso: come si tollera l'intolleranza senza contraddire il concetto di tolleranza? Intendo dal punto di vista strettamente logico, non dialettico nel merito di ciò che si tollera, dove si possono ottenere compromessi, rinunciando alla fine a una delle due posizioni in opposizione o creando miscele accettabili di compromesso sul piano dell'interpretazione delle posizioni.

Un po' meglio, forse, illustro la probabile impossibilità di fare ragionamenti etici in questi miei scritti:

http://www.adaptive.it/ph/embrio.htm
http://www.adaptive.it/ph/fa.htm
http://www.adaptive.it/ph/ume.htm
http://www.adaptive.it/ph/terap.htm
http://www.adaptive.it/ph/moderncri.htm
http://www.adaptive.it/home.htm

(per favore non mi ricordi anche Lei [apR] l'ineleganza dell'autocitazione; si tratta di un solo pensiero lungo; non riesco a riscrivere ovunque ogni volta tutto)

A proposito di tolleranza e fede nella verità rivelata non so dire, perché dalla verità rivelata si cava di tutto, essendo una enorme argomentazione circolare vuota dove le parole hanno sempre significati multipli che mutano in continuazione. Questo a causa dell'impostazione della cosa che richiede l'interpretazione della rivelazione, oltre al fatto di essere la rivelazione arbitraria. Ma tolleranza e pretesa verità etica sono incompatibili, come ho accennato sopra, se pretendono di essere un ragionamento con un minimo di logica coerente. Infatti nel mondo fisico, se qualcuno non recede in qualcosa, finisce a cazzotti. E, se le posizioni riflettono veri interessi vitali, ci si ammazza. Ci si ammazza anche per motivi più futili, ma così è.

E' una questione fisica che riguarda tutti i sistemi in qualche modo chiusi e con risorse fisicamente limitate, come capì chiaramente Darwin ribaltando sul piano conoscitivo le illuminanti speculazioni di Malthus sull'esuberanza riproduttiva rispetto alle risorse alimentari producibili o disponibili, speculazioni fatte però ancora con intenti di moralista-economista tendente a cercare rimedi al male (ricordo che la moderna "scienza economica" liberale nasce come branca della filosofia morale dell'illuminismo inglese). Malthus pensa ancora da moralista cristiano; Darwin da scienziato non più umanista. Darwin abbandona la prospettiva umanistica e umanocentrica in modo definitivo e radicale. Egli smette di pensare in termini morali e, grazie a questo fatto, trova il meccanismo fisico con cui si produce la biodiversità.

La teoria dell'evoluzione non parla di progresso e non ha alcuna escatologia, né ipotizza finalità alcuna presiedere la formazione e l'esistenza dei viventi, al contrario del materialismo Marxista di stampo Hegeliano (detestato da Darwin) ed eresia cristiana che predica l'avvento messianista della società senza classi, dottrina con una escatologia fortissima. Non bisogna confondere Darwin con Herbert Spencer o altri che parlano di "dover essere delle specie". Le specie sono un effetto a posteriori delle interazioni fisiche. Non sono delle finalità né, men che meno, delle "essenze" dotate di "NATURA aristotelica" nel senso di "essenze immutabili" a cui gli esemplari di quelle essenze tendono per moto proprio naturale. Quella visione ci viene dai greci (in special modo dalla fisica di Aristotele), ma il pensiero moderno attuale la rigetta come approccio conoscitivo inaffidabile.

Non basta fare astrazione degli interessi umani per concludere che esista una "natura umana" che prescrive un "dover essere" secondo tale natura. Se si fa questo passaggio si mischia il piano ontologico con quello epistemologico in un groviglio inestricabile. Sarebbe come dire che: dato che in media la probabilità di uscita di un certo numero del Lotto è di 1/90 e dato che sono 100 mila volte che quel certo numero non esce, allora la prossima volta uscirà CERTAMENTE il numero ritardatario perché la sua "natura di comparire 1 volta su 90" esige che esso "debba" comparire la prossima volta. Invece no: la probabilità che quel numero esca la prossima volta resta 1/90. Ciò che è improbabile è che non si sia mai manifestato per 100 mila volte, ma questo non altera la probabilità della sua prossima uscita. Il passaggio da "essere" a "dover essere", chiave di volta per formulare una dottrina della "verità del bene", è sconnesso.

Il caso della "natura umana" poi ha un elemento strutturale di instabilità in più rispetto alla struttura del gioco del Lotto. Mentre la probabilità a priori di 1/90 è data dalla struttura del gioco del Lotto (estrazione di un numero su 90 possibili), quella specie di "media astratta" o idealità, detta "natura umana" e ricavata mediante generalizzazioni delle caratteristiche di una serie di uomini, non ha una struttura a priori altrettanto definita. Infatti risulta, al più, da una induzione incompleta di "alcuni" verso il "tutti" che non garantisce che la "media a priori" non cambi, mano a mano che l'induzione procede. E qui siamo ancora soltanto sul piano strettamente logico. Poi entrano in gioco un sacco di altri fattori di interpretazione delle caratteristiche, di trasformazione ed evoluzione effettiva degli esseri, di carenza di informazione, ecc. che contribuiscono ulteriormente ad allontanare la possibilità di definire la "natura umana" nel senso forte e prescrittivo richiesto per passare da "essere" a "dover essere".

Per questo occorre introdurre l'artificio irrazionale e arbitrario della Rivelazione a fondamento della "razionalità cristiana", altrimenti non sta in piedi. Ma che razionalità è una razionalità che si fonda su una irrazionalità arbitraria da cui si cava qualsiasi conclusione, dato che, in linea di principio, ad una rivelazione se ne può sostituire un'altra, in quanto arbitraria? Tutto ciò può essere razionalmente comprensible come arma di un popolo (se ciò convince quel popolo). Ma non lo è in sé. E così si forna la dottrina del "popolo eletto" (quello che capisce la rivelazione), con le conseguenze immaginabili che ciò comporta qualora, di "popoli eletti", ve ne siano due o più di due.

Lo sapeva bene Tommaso d'Aquino che la cosa non stava in piedi. Infatti blinda la ragione cristiana assumendo la fede come criterio del corretto ragionare. La verità di ragione non può mai venire in contrasto con la verità rivelata. Quando un contrasto appare è segno che si tratta non di verità razionali, ma di conclusioni false o non necessarie. La fede è la regola del corretto procedere della ragione. (dalla Summa contra Gentiles, I, 7).

Però, anche se farebbe comodo che ci fosse una "natura umana" con quelle caratteristiche prescrittive per poter rendere razionalmente fondata la verità di ciò che è bene, non vuol dire che essa ci sia e che la verità del bene sia fondata; auspicare tale "natura umana" non è la stessa cosa che argomentarne l'esistenza.

Perciò io ritengo possibile SOLO un cristianesimo irrazionale come farmaco, ove funzioni. E come arma. Un cristianesimo che attinge alle emozioni, proprio come l'innamoramento da Lei [apR] ricordato a proposito del tardo Wittgenstein. Per Lei [apR] che è di pensiero fine non funzionerebbe quel farmaco, ovviamente. Come non funziona per me. Veda anche i ragionamenti che ho fatto in risposta a "don Rino" e quelli a "studentello".

Sì, sul piano etico rimane solo il calcolo delle conseguenze, o degli interessi, (calcolo che può essere solo parziale e molto approssimato e fatto da prospettiva soggettiva, perché fisicamente ogni ente agente può non volere le stesse cose e non può MAI avere TUTTA l'informazione in quanto sottoinsieme del tutto: lo sapeva già anche Laplace, che pure era un determinista convinto). L'utilitarismo, nel momento in cui cerca di oggettivarsi, aspira alla oggettività etica e crolla. Perché il mondo è Darwiniano, non Smithiano (o Benthamiano, o Cristiano, ecc.). In questo mondo l'insorgenza del "nemico", del "radicalmente altro da sé", è incontrollabile. Brancoliamo nel buio e navighiamo a vista. Non possiamo non brancolare nel buio più nero, se desideriamo vedere in modo assoluto, soprattutto le questioni etiche. In alternativa, ci possiamo accontentare di vedere un po', molto poco, se cerchiamo di pensare in modo fine, affidabile e non-etico.

E' la condizione tragica senza scampo di ogni organismo abbastanza complesso da riuscire a pensare la tragedia. Gli viene dall'essere processo e non essenza. Credo che Emanuele Severino abbia capito bene questo nodo. Anche l'amore è farmaco, funzionale alla riproduzione, tecnica che produce piacere per effetto della quale siamo qui a parlarne invece di essere estinti. Il nostro cervello ne produce in abbondanza: fisicamente, molte diverse sostanze.

Una meraviglia di meccanismo l'evoluzione. Produce organismi che sanno automedicarsi e autoripararsi almeno un po' senza nemmeno accorgersene (gli altri si sono estinti o non sono mai comparsi all'orizzonte). E sanno inventare armi potentissime come l'etica e la retorica. Ricordo che è sempre un presunto ragionamento etico ritenuto tale a far funzionare un'arma potente. Nei casi di armi meno potenti, ma talvolta ugualmente letali, non serve neppure che l'emozione si mascheri da ragionamento.

Le tecniche retoriche questo fanno: sollecitano neuroni a produrre farmaci, come si comincia a vedere abbastanza bene grazie alla neurobiologia e all'imaging funzionale del cervello ripreso durante operazioni cognitive e dinamiche emotive. L'osservazione tramite imaging funzionale ha per contraltare un quadro teorico abbastanza solido nello studio delle proprietà cognitive dei reticoli di dispositivi neuron-like (reti neurali artificiali, ecc.). Non pare ci siano più misteri di principio su come si produce pensiero ed emozione. Solo una iper-enorme complessità di interazioni fisiche in sé banali. Queste conoscenze non si possono disinventare. Neanche le armi si possono disinventare. Non si può scegliere la non insorgenza del nemico. Basta un sasso, un bastone qualsiasi.

Lei [apR] dice richiamando giustamente Platone: "I temi del vero e del bene non sono separabili". Io dico: i temi del vero e del bene non debbono poter essere separabili solo se si VUOLE far funzionare la ragione come farmaco per uscire dalla tragedia e far funzionare l'etica come ragionamento (cosa che non è, ma sempre è emozione che guida armi). Questa cosa, cioè che la ragione farmaco anti-senso-del-tragico non deve essere riconosciuto come farmaco per funzionare, Lei [apR] la sa molto bene, come anche Platone la sapeva bene (forse). Lei [apR] la sa bene, visto che sa benissimo che il misticismo del Witgenstein post-Tractatus non funziona, come non funziona il relativismo etico derivato dal soggettivismo estremo di Schopenhauer e come non funziona la semplice sostituzione, proposta da Nietzsche, di una tavola di valori con un'atra, operazione forse poco capita dai post-moderni, che dal punto di vista teoretico mi paiono un po' evanescenti. La crisi del multicult e persino delle dottrine politiche illuministe è evidente a tutti.

Tenere congiunto il vero col bene è ancora spettacolo, uscita dal senso del tragico come spettacolo: impersonificazione. Da cui, forse, la dottrina cristiana della Persona. Senso del tragico che voi amplificate sempre parecchio per esigenze di spettacolo.

La ragione della materia se ne fotte di noi e dei nostri spettacoli, della nostra rappresentazione della tragedia. Auspicare una Ragione per contenere e risolvere il senso del tragico non significa che essa ci sia. Questo ci fa balenare l'uso critico del pensiero, questione che a Lei [apR] sfugge!

L'auspicio che ci sia tale Ragione potrebbe proprio essere il farmaco, che funziona proprio perché si ignora, o non si vuole vedere, che sia un farmaco. Ma quella Ragione platonico-cristiana non è pensare secondo ragione, intendendo con ciò uso critico del pensiero. E' precisamente usare la Ragione come farmaco. Ed è forse per questo che quella Ragione cristiana ha bisogno di così tanta metafisica e di così tanta retorica, di misteri e imperscutabili rivelazioni.

La dinamica delle interazioni della materia ha una potenza in grado di sovrastare qualsiasi nostra cosa e qualsiasi buona intenzione. Tant'è che moriamo, prima o poi. Tant'è che soffriamo. Tant'è che pensiamo di percepire una ingiustizia misteriosa, mentre è solo l'indifferenza della materia che si manifesta. Ma non moriamo soltanto, non soffriamo soltanto. Se no non si capirebbe perché ci secchi così tanto morire. Qualche meccanismo di compensazione a tanta sofferenza ci sarà pure da qualche parte.

E doveva esserci anche prima di Cristo, visto che nessuno riporta significative variazioni demografiche attorno alla sua ipotetica venuta. Ergo scarsa incidenza sul fronte della compensazioni alla sofferenza dello stare al mondo, nonostante le molte miracolose resurrezioni e guarigioni varie. Anche dopo, non si nota praticamente nulla per 1700 anni di azione della buona novella. La si nota, la variazione demografica (e che variazione!), in corrispondenza invece di un accidente fisico fondamentale: quello di aver imparato a trasformare in lavoro meccanico energia da stock di elevata entalpia (carbone, petrolio, ecc.) per mezzo delle macchine termodinamiche artificiali prodotte a partire dal 1770 circa, grazie ad un nuovo modo di guardare il mondo, rispetto alla fisica di Aristotele, inaugurato appena 1 secolo prima, circa, nonostante molte ostilità della Chiesa Universale di Roma. Evidentemente questo fatto deve aver generato, abbastanza rapidamente, occasioni di sopravvivenza per molti più umani che in precedenza. Più energia media pro capite a disposizione = più cibo e occasioni di sopravvivenza, senza miracoli inspiegabili. Ecco una stima della popolazione mondiale nella storia: http://www.adaptive.it/ps/wpe.htm. Come dire: trova una nuova fonte di cibo ignota prima, ed ecco che la propensione a sovrariprodursi, notata da Malthus e da Darwin, si manifesta prorompente. Sa di meccanismo molto più collaudato dei miracoli. Assomiglia in modo impressionante all'andamento di una colonia di batteri che trovano un terreno di coltura vergine e vi si insediano. E i batteri, notoriamente, sono poco influenzati dal cristianesimo: non se ne parla neanche mai nei Vangeli, nè nella Bibbia, né nel Corano. E dire che quelli sì che si sono fatti sentire con varie pestilenze: le più grandi si vedono pure sulla curva demografica.

Quella ragione della materia comunque riemerge sempre. Dai monoteismi lo fa con grandi ecatombi, dopo periodi di relativo silenzio e in contrasto con la creduta e celebrata verità del bene. Provi [apR] a ripensare in questa chiave gli eccidi avvenuti nella civiltà giudeo-cristiano-islamica.

Le ecatombi che Lei [apR] imputa all'abbandono della "razionalità cristiana", all'abbandono della riconciliazione tra ragione e religione, hanno la loro radice profonda a monte, nell'escatologia giudaico-cristiano-islamica, nella convinzione che esista una "finalità ultima", hanno radice nella pretesa di conciliare filosofia dell'essere e incarnazione storica dell'escatologia, a mio modo di vedere. Hanno radice profonda nella pretesa infondata di poter conoscere la verità di ciò che è bene, a cui Platone fornisce un apparente apparato di razionalità, del quale però Aristotele già dubitava un po' (soprattutto il tardo Aristotele, quello che si addentra nella ricerca biologica e nelle scienze particolari).

Platone, con espedienti retorici subdoli (i suoi finti dialoghi), espedienti di cui forse nemmeno si rende ben conto, mette arbitrariamente al centro di tutto una astrazione indebita: l'Uomo come ente astratto e i suoi presunti ma taciuti interessi come enti astratti, probabilmente affascinato dalla efficacia argomentativa della geometria del suo tempo. Fa, grossolanamente, un po' quello che Kant tenta di fare, in modo estremamente più raffinato, quando pretende di fare una specie di "fisica" della ragione, affascinato dalla fisica di Newton. Platone inventa l'umanesimo razionaleggiante; pone gli interessi astratti di un Uomo astratto al centro di tutto e di lì parte a produrre la sua costruzione razionale. Ma si dimentica di affrontare la spinosa questione di COME si passa da enti di cui si parla al singolare (alcuni) ad affermazioni universali sul mondo. In pratica istituisce la "fallacia del moralista" come metodo di pensiero razionale. Ma porre al centro l'Uomo (un uomo astratto) non è garanzia di razionalità. E' soltanto una arbitraria assolutizzazione dei suoi presunti interessi. E' sempre e soltanto ancora "spettacolo", sacra rappresentazione. Ma, di nuovo, la ragione della materia, il modo in cui essa funziona, se ne fotte di noi e dei nostri spettacoli, della nostra rappresentazione della tragedia.

La fisica, intesa come scienza moderna da Galileo in poi, è praticamente solamente l'esame critico di quel passaggio: COME da proposizioni singolari sul mondo (o sulla realtà) si passa a proposizioni universali sul mondo, e quali limiti di validità quelle proposizioni universali sul mondo hanno. Il pensiero cristiano (soprattutto il cristianesimo razionale), che è inzuppato di Platone fin nelle budella, non riesce a svincolarsi dall'etica, non riesce a svincolarsi dall'interesse (acriticamente presunto generale), non riesce a svincolarsi dal volere che le cose siano come stabilito per presunta verità. Assume la passione della rivolta come criterio di verità. Perciò produce massacri, non solo della finezza di pensiero ma anche massacri di pensatori e poveracci in carne ed ossa. La rivolta è divertente, appassionante, ma non necessariamente produce verità. Può però facilmente degenerare in dominio dell'altro o essere usata a questo scopo. Pensi alle scuole coraniche dove vengono allevati martiri dell'Islam. Essi danno la vita per una causa, cosa che Lei [apR] rimprovera al relativismo etico di non saper suscitare: "La fede come gioco è qualcosa di radicalmente diverso dalla fede creduta e vissuta. Non indica una strada, è soltanto un ornamento. Non ci aiuta né a vivere né a morire; tutt’al più fornisce un po’ di svago, un po’ di piacevole apparenza - ma per l’appunto solo apparenza, e questo non basta per vivere e per morire".

E come fa Lei [apR] a sapere cosa basta a me per vivere e per morire? Perché dovrei farmelo dire da Lei [apR]?

Prendo a prestito una considerazione di Giulio Preti, un grande e raffinato filosofo italiano troppo frettolosamente dimenticato, che illustra bene questa tipica fallacia cristiana e platonica nel ragionare:

"C'è una forma di argomentazione che è assolutamente tipica della cultura letteraria – argomentazione che contamina un punto di vista axiologico (per esempio, morale: ma non necessariamente) con un punto di vista ontologico. La sua forma generica potrebbe così schematizzarsi: «p deve essere vero perché p è bene» (oppure: «p deve essere falso, perché p è male»); oppure, in forma generalizzata: «p implica q; q è male; dunque p deve essere falso». Di questo tipo di argomento usano, e abusano, soprattutto i filosofi spiritualisti quando criticano dottrine di ispirazione scientifica (o anche no) per le loro (reali o presunte) conseguenze etiche: per esempio, il materialismo e il determinismo, oppure lo scetticismo, ecc."

e ancora:

"... quel tipico modo di argomentazione è stato chiamato, nel nostro secolo , «fallacia del moralista». E' stato quindi considerato un modo di argomentazione logicamente (scientificamente) scorretto. Il fatto che p sia bene (o male) non implica che p sia vero (o falso): se piove, l'enunciato «piove» è vero, anche se mi dispiace, anche se oggettivamente è male, che piova. Vuol dire che ci si metterà rimedio: ma il fatto è il fatto, e non può venire negato."

Marx è solo una eresia cristiana (lo dice persino Massimo Cacciari), intellettualmente modesta e pericolosa. Come lo sono tutte le escatologie che pretendono di condizionare il mondo fisico uscendo dall'iperuranio. Anche Lei [apR] intravvede ciò. Ma provi a congiungere il concetto di escatologia col fatto che noi non possiamo esimerci dal vivere fisicamente. Allora forse vede un'altro quadro. E vede che Marx dice di fare quello che i cristiani dicono sarebbe bene fare. E vede che il Nazismo fa quello che fa in seguito ad uno stringente ragionamento etico con orizzonte escatologico che ha un presunto "popolo eletto" alla radice, anche se non ci piace pensare che quello Nazista sia ragionamento etico. Eppure lo è. Entrambi nascono nella cultura e nella filosofia tedesca e continentale europea, che è cristiana fino al midollo, con il culto dell'etica creduta ragionamento, prima ancora che per altri aspetti specifici di dottrina. E' cristiano nell'assumere lo "umanesimo" come presupposto conoscitivo e non come manifestazione del proprio interesse. Questa assunzione conoscitiva presuppone la "fallacia del moralista" a suo fondamento e ha come conseguenza la tecnica retorica come artificio dimostrativo. Con ciò forma la coesione della polis. Cioè diventa tecnica dell'esercizio del potere, forse tecnica per la produzione della letizia, ma non tecnica della ricerca della verità affidabile, cosa che Lei [apR] pretende.

La prossima ecatombe rischia di essere terrificante e mai vista, se affrontata coi monoteismi. Fate attenzione a cosa pensate e a come usate i vostri suadenti megafoni (Rwanda docet), voi cristiani e islamici, perché i rischi sono giganteschi, di una misura mai né vista né pensata. E non è l'effetto serra ciò di cui parlo, ma il venire a mancare energia da stock di entalpia adeguata con la quale fisicamente sopravviviamo così tanti sulla Terra (noi umani del 2000 che siamo vertici di una catena alimentare lunghissima e ramificatissima, più vertici degli orsi, più delle aquile, più degli squali, più di qualunque altro organismo vivente):

Perché si fa una guerra? [http://www.adaptive.it/ps/warnowar.htm]
Rischi da etica nel nucleare civile [http://www.adaptive.it/ph/nucletic.htm]
Lettera ad un imprenditore nel Nord-Est [http://www.adaptive.it/ps/fineoil.htm]

C'est pourquoi le plus sage des législateurs disait que, pour le bien des hommes, il faut souvent les piper ... (B. Pascal, Pensées, 230). Sarà vero? Pascal, che di fisica ne capiva, ne dubitava.

Mi piacciono i dialoghi aperti, e non si lasci impressionare dai miei toni a volte sarcastici. E' un mio difetto, ma a volte lo uso per smuovere acque stagnanti o torbide.

Volentieri ricambio il saluto.

Bruno Caudana.

© 2005